Abitare la montagna: l’edilizia storica dell’Appennino emiliano.

L’Italia è una terra ricca di cultura e storia, con un patrimonio immenso, a volte tutelato, a volte dimenticato.

Il patrimonio edilizio “minore” è notevole per varietà e comprende ville padronali, case mezzadrili, case torri, borghi, ma anche mulini, ponti, fontane e lavatoi, mulattiere, essiccatoi, piloni votivi e cappelle devozionali. Tutto ciò è “oggi, un bene culturale, quarant’anni fa un contesto odioso da abbandonare, quale simbolo di fatica e discriminazione”.

Edicola votiva presso Borgo La Scola.
Edicola votiva presso Borgo La Scola.

Ma la strada verso la consapevolezza che “ogni casa è dunque un regalo che ci viene dal passato” non è sgombra. E poi, ammettiamolo, i film in bianco e nero sono lenti e i musei della civiltà contadina noiosi… Vero, oppure no?

Ammirare il bello delle case storiche di campagna non vuol dire votarsi alla malinconia dei tempi che furono, che non sempre furono migliori! Vuol dire saper apprezzare l’armonia delle linee, la qualità dei materiali semplici, il loro integrarsi perfettamente con l’ambiente circostante e, spesso, godere della poesia che questi edifici emanano.

Portali di case storiche a Borgo La Scola.
Portali di case storiche a Borgo La Scola.
Casa del complesso storico Ca' De' Masina, con portali e finestre, ora tamponati, in conci di arenaria disposti ad arco a sesto acuto.
Casa del complesso storico Ca’ De’ Masina, con portali e finestre, ora tamponati, in conci di arenaria disposti ad arco a sesto acuto.

L’attrattiva turistica e il valore economico di queste architetture va di pari passo con le risorse dedicate alla tutela e al recupero, e con la scelta di chi, magari controcorrente, riscopre la genuinità di territori e architetture storiche, rimodellando spazi e utilizzi. Le Regioni, ad esempio, pubblicano bandi per accedere ai fondi PNRR per l’architettura rurale, sia per il risanamento conservativo che per interventi funzionali, e per il mantenimento del paesaggio.

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L’architettura storica dell’Appennino emiliano

Cime, laghi, foreste e colline. L’Appennino emiliano o Tosco-emiliano ha panorami molteplici, basta pensare agli affioramenti di gessi antichissimi che hanno un aspetto suggestivo o al massiccio roccioso detto Pietra di Bismantova citato da Dante nella commedia, nel IV canto del Purgatorio, di ispirazione per la descrizione che fa del roccioso e isolato Monte del Purgatorio.

Le vette che superano i 2000 metri come Monte Prado, Monte Cusna e Alpe di Succiso, hanno crinali lambiti dalle foreste di faggio e abete bianco, e più in basso da querceti e castagneti. Agricoltura e pastorizia in questi luoghi sono andate scemando, ma rimangono i bellissimi borghi con resti delle mura e delle fortezze medioevali che fanno capolino tra i boschi.

Ma qual è la storia di queste architetture?

Storicamente il “contado” contava, sì, ma solo come zona di produzione da cui attingere: “contado” viene infatti da “comitatum”, ovvero feudo di un conte.

Dopo le invasioni barbariche e la scomparsa della rete di villae agrarie romane, si poteva vivere sicuri solo all’interno delle cinta murarie cittadine. Solo le pievi, in epoca medievale, cercavano di affrancarsi dal potere feudale, spesso violento, e costituivano piccole comunità isolate e disperse in un territorio selvaggio.

Oratorio di Santa Caterina di Montovolo.
Oratorio di Santa Caterina di Montovolo.

In epoca comunale si formarono nuovi borghi, specie in pianura, e anche nell’Appennino si diffusero agglomerati di case costruite in pietra attorno a piazzette e stradine, che offrivano protezione a piccole comunità.

Le zone montane erano poco degne di considerazione. Ad esclusione delle ripide e leggendarie vette alpine, la montagna del Settecento non aveva appeal: era considerata povera, brutta, rozza, pericolosa e di ostacolo al viaggiare. E fino alla seconda metà dell’Ottocento, prima di diventare “termale”, l’Appennino non fu considerato, stranamente, nemmeno un po’ “pittoresco”!

Nel corso del Novecento le guerre mondiali e l’abbandono lasciarono ruderi. La migrazione degli abitanti di montagna verso le zone di pianura e verso le città si accompagnò all’abbandono quasi totale delle coltivazioni in Appennino che nei primi decenni del secolo occupavano comunque il 30/40% del territorio.

Antica casa rurale presso l'Abbazia di Roffeno.
Antica casa rurale presso la Pieve di Roffeno.

Negli anni ’50 e ’60, anni dell’esodo e della scomparsa dell’insediamento sparso, specie in montagna, l’ottimismo post bellico fece nascere le cosiddette “seconde case” del turismo invernale, mentre ovunque i confini tra città e campagna sfumarono con il pendolarismo.

È così che la casa agricola, che ha valore in quanto “unicum” non più ripetibile, venne abbandonata, sommersa o contaminata da nuove architetture più funzionali, cittadine o moderne.

Per storici e studiosi l’umile dimora di sasso dei montanari diventò bella e importante solo grazie alla fotografia, che come sempre rivela e cambia gli sguardi.

Ecco allora nascere già nel primo Novecento la fotografia architettonica, prima di città e monumenti, poi della campagna con i suoi riti agricoli, il raccolto la vendemmia, la festa…

Dopo le distruzioni della guerra, grazie anche alla fotografia le vecchie case acquistano valore documentale, storico e estetico.

L’architettura dell’Appennino bolognese, infatti, fu in gran parte rasa al suolo per motivi bellici (spesso per rappresaglia e per impedire che diventasse rifugio dei partigiani) e il dopoguerra, poi, portò al quasi totale spopolamento delle zone montane. Ciò che rimane oggi è spesso frutto di rimaneggiamenti. (Solo una legge regionale del 1978 sulla tutela e uso del territorio evitò in parte gli abusi edilizi più gravi).

Queste architetture hanno un grande valore anche nel loro rapporto unico con le strade e i coltivi, purtroppo quasi mai preso in considerazione, ma ancora più importante se si considera che gli interventi di recupero odierni, molto spesso, ignorano questi aspetti e tendono a frantumare la dimensione unitaria dei nuclei rurali.

La casa torre rurale

Nei territori di mezza montagna, nel Bolognese, erano diffuse le case torri. La casa torre rurale costituisce un esempio di architettura solida, elegante e funzionale. Dal XV secolo in poi le abitazioni civili, infatti, compaiono fuori dalle mura fortificate dei borghi e devono dotarsi di strumenti di difesa.

Panorama dell'Appennino con casa torre.
Panorama da Montovolo con casa torre.

La torre nasce per difendere con pochi uomini uno spazio ristretto in cui rifugiarsi in caso di attacco. Per questo la torre ha feritoie e piccole finestre strombate, e si raggiunge tramite una porta rialzata dal suolo e accessibile da una scala amovibile in legno. A volte la torre ha le “bertesche” ovvero coperture poste sopra l’ingresso da cui poter gettare liquidi bollenti sui nemici, pistoiesi o modenesi che fossero, o semplici malviventi che mettevano a ferro e fuoco le campagne dell’Appennino bolognese.

Casa torre fortificata a Monzone.
Casa torre del Monzone in frazione Rocca di Roffeno (Castel D’Aiano, Bo), nucleo trecentesco.

Le torri rimasero poi inglobate negli edifici stessi creando appunto le case torri, e diventando nel tempo segno di prestigio delle dimore rurali dando un aspetto lussuoso e imponente a vere e proprie ville, fungendo da colombaie o nidi per rondoni (riconoscibili per i piccoli fori visibili nelle pareti). I rondoni, infatti, considerati, purtroppo per loro, una prelibatezza, sanno infilarsi a grande velocità dentro buchi strettissimi, come veri paracadutisti acrobatici!

Adibire edifici a nido per uccelli era infatti un’usanza antichissima, di epoca romana. Si mangiavano gli esemplari adulti e i pulcini, mentre il guano veniva usato per concimare gli orti. L’architettura delle colombaie, specie delle ville, era così elegante e ricercata perchè era manifestazione sociale della ricchezza della famiglia di proprietari.

Gli uccelli, quando non destinati alla casseruola, erano preda dei topi o delle donnole, per cui le torri spesso hanno tipici “coppi invetriati” (cioè ricoperti di vetro e molto lisci), disposti lungo gli spigoli per far scivolare i predatori. Perché? Perchè questi animali non sono in grado di scalare un muro, ma riescono ad arrampicarsi abbracciandone lo spigolo!

Dettaglio del coppo invetriato a Borgo La Scola.
Dettaglio del coppo invetriato a Borgo La Scola.
Borgo La Scola.
Borgo La Scola.

Un esempio è quello del nucleo quattro-cinquecentesco di Ca’ De’ Masina dove la torre presenta una colombaia con cornicione in mattoni a dente di sega sostenuti da mensolette tra le quali sono ricavati i fori destinati alla nidificazione dei rondoni.

Nucleo cinquecentesco di Ca' De' Masina con torretta coronata dalla colombaia
Nucleo cinquecentesco di Ca’ De’ Masina con torretta coronata dalla colombaia, con cornicione su tre lati in mattoni disposti a denti di sega e finestrelle ad arco a tutto sesto. 
Torre con dettaglio del coppo invetriato.
Torre con dettaglio del coppo invetriato.

I borghi fortificati dell’Appennino bolognese

I borghi fortificati medioevali sull’Appennino Bolognese sono molti, come ad esempio Monteacuto delle Alpi, Castel del Rio, Dozza, Savigno, Monteveglio, Castello di Serravalle, Oliveto, Scascoli, Affrico, Stanco di sotto, Lizzano in Belvedere…

La valle del Limentra (valle dei due torrenti che alimentano il fiume Reno) custodisce la massima concentrazione di borghi e edifici storici del Bolognese. Il motivo è che qui a lungo ci fu il confine tra Longobardi e Bizantini.

Nel 1183 con la Pace di Costanza (Federico Barbarossa riconosce la Lega Lombarda di Milano, Lodi, Piacenza, Parma e Ferrara e altri comuni uniti per difendersi dal Sacro Romano Impero) i comuni ottengono concessioni in ambito amministrativo, politico, giudiziario e per le riscossioni. Il Comune di Bologna ottiene il diritto di edificare fortificazioni autonome. Ne seguì un periodo di espansione urbanistica e economica con la nascita di nuovi borghi. I feudatari della montagna non si piegarono facilmente al nuovo movimento storico che portò alla fine della servitù della gleba e alla liberazione di servi che diventarono liberi contadini. Dal 1200, quindi, gli abitanti della montagna divennero piccoli proprietari terrieri che vivevano di agricoltura e dimoravano in abitazioni di legno e paglia.

Borgo La Scola

Poco distante dalla valle del Limentra, il borgo La Scola (di cui nel 1300 sono documentate le famiglie che vi abitavano già dal Duecento) fu un posto di guardia dei longobardi pistoiesi proprio sul confine tra Bologna e Pistoia. Tra il 1300 e il 1500 il borgo si ingrandì grazie a dei proprietari fondiari e ai Maestri Comacini che ne fondarono l’edilizia. Così le torri si trasformarono in case.

Borgo La Scola.
Borgo La Scola.

La Scola (forse dal longobardo “sculca” ovvero “posto di guardia in luogo elevato”) è un nucleo quattrocentesco ottimamente conservato e molto significativo dell’architettura medioevale della valle, di impronta civile e militare. Rimangono tre torri, due oratori e un tabernacolo tra vicoli selciati su cui si affacciano portali e finestre decorate. In basso, sotto al borgo, il ruscello Rio Bono fa da confine tra Pistoia e l’esarcato di Ravenna.

Visitiamo il piccolo borgo accompagnati dalla gentilissima sig.ra Sandra e la passeggiata è una scoperta. Il borgo offre scorci di enorme bellezza. Stupisce quanto sia integro e quindi ancora testimone fedele della sua storia.

Borgo La Scola 1
Borgo La Scola.

La Scola fu proprietà della famiglia di notai Parisi (che si occupavano dei rogiti e delle transazioni relativi alle case in cui si insediavano i militari e le loro famiglie) sicuramente dal 1385 fino al Settecento. Le vicine e famose cave di arenaria di Montovolo hanno fornito la pietra per questo gioiello di architettura scampato chissà come alle distruzioni e alle ristrutturazioni dei secoli successivi.

Ancora oggi le sue pietre sono vive: ammiriamo la facciata della residenza Parisi, del 1600, la meridiana settecentesca, l’oratorio seicentesco di San Pietro, casa Fioravanti, il forno del Quattrocento dei Maestri Comacini con scolpiti due volti di uomo e di donna.

Borgo La Scola.
Borgo La Scola. Veduta del borgo con la meridiana di Casa Parisi.
Borgo La Scola. Il forno.
Borgo La Scola. Il forno.

La presenza di sottopassi facilmente sbarrabili testimonia, insieme alle case-torri, alle numerose feritoie e alle “traditore” ai lati del portone della residenza Parisi, l’esigenza difensiva del piccolo borgo. Un cipresso (che si stima abbia tra i 500 e i 700 anni) stupisce i visitatori con la sua imponente bellezza

Borgo La Scola. Il cipresso monumentale.
Borgo La Scola. Il cipresso monumentale.

L’arte della pietra e i Maestri Comacini

Nel borgo rimangono evidenti gli interventi lapidei dei Maestri Comacini. Ma chi erano?

I Maestri Comacini furono maestranze edili specializzate, capostipiti di una scuola lombarda di costruttori, scultori e tagliapietre dell’Alto medioevo (già nominati nell’editto di Rotari del 623). Così si nominavano gruppi di magistri lapidum, simili a corporazioni medievali, riconoscibili per stile e maestria nel taglio e nell’uso della pietra. Poi, per estensione, il termine si riferì a maestri lombardi che ereditarono l’arte dei comacini fino al 1600.

Inizialmente erano squadre di tecnici itineranti, migrati nell’Appennino bolognese dalla vicina Toscana, più popolata e prospera. Con l’instaurarsi di nuove proprietà terriere fiorirono quindi nuovi edifici e in molti di questi i Maestri Comacini lasciarono la loro impronta: dalle pietre angolari, massiccie e finemente squadrate, alle finiture di pregio di architravi, mensole, portali e lavatoi, su cui gli artigiani imprimevano il loro “marchio” come una griffe di oggi.

Borgo La Scola con le rosette celtiche dipinte sull'intonaco della torre, simboli dei comacini.
Borgo La Scola. Le rosette celtiche dipinte sull’intonaco della torre.

Tra i simboli usati compare “la stella, la rosa a sei punte, la spirale radiata, il nodo “gordiano” e altri intrecci, oppure immagini antropomorfe e zoomorfe, eco stilistica degli oranti e dei bestiari medievali fioriti secoli prima in capitelli e rosoni, per mano degli antenati degli stessi artigiani”. Tra i simboli tipici si trovano anche attrezzi del mestiere, cazzuola, squadra, compasso, martello, punteruolo…

Nel borgo ne rintracciamo alcuni: in una delle finestre si vedono infatti i “seni”, simboli di prosperità, formelle con il sole delle Alpi (o fiore della vita o rosetta celtica…), le salamandre e le chiavi della città.

Simboli dei maestri comacini sui conci di una finestra.
Borgo La Scola. Simboli dei maestri comacini sui conci di una finestra.

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